Magari hai pensato alla possibilità di iniziare una terapia, ma ti blocchi davanti a mille dubbi: da dove comincio? Mi servirà davvero?
La verità è che non servono crisi enormi per chiedere aiuto. Iniziare un percorso terapeutico può essere una scelta potente anche solo per conoscersi meglio, sentirsi più centrati o affrontare quelle piccole fatiche quotidiane che spesso ignoriamo ma ci pesano.
È normale avere domande - ed è proprio da lì che si comincia.
Iniziare una terapia non significa necessariamente avere un grande problema da risolvere. È uno spazio sicuro, tutto tuo, dove puoi parlare liberamente di ciò che provi, senza giudizi, con il supporto di un professionista.
È un’occasione per ascoltarti, capire meglio le tue emozioni e i tuoi comportamenti, e trovare nuovi strumenti per affrontare la vita con più serenità.
Certo, non sempre è facile. A volte può essere faticoso perché ti trovi a dare voce, forse per la prima volta, a parti di te che fanno male. Alcuni momenti possono toccare nervi scoperti, ma è proprio in questo processo che inizia il cambiamento.
E spesso accade anche il contrario: già dalle prime sedute molte persone raccontano di sentirsi meglio, semplicemente perché iniziano a prendersi cura di sé in modo attivo.
Uno degli obiettivi della terapia è proprio questo: un cambiamento verso lo stare meglio. E anche se all’inizio può essere scomodo, il benessere che si costruisce nel tempo ripaga ogni passo.
Se l’idea della terapia ti è passata anche solo una volta per la testa, forse vale la pena ascoltarla.
Non serve che tutto sia chiaro o perfetto: a volte il primo passo arriva proprio così, un po’ incerto, ma necessario.
Concederti questo spazio può cambiare più di quanto immagini. E sì, potresti sorprenderti di quanto ti farà bene.
Bibliografia
Le esperienze vissute da bambini e da adolescenti con i nostri genitori influenzano profondamente gli adulti che diventiamo.
Crescere con genitori emotivamente presenti, capaci di sintonizzarsi con i nostri bisogni, significa respirare amore, stabilità e fiducia. Ma quando questo manca, resta un vuoto difficile da colmare: la ferita invisibile di non essere mai stati veramente visti.
Prima di esplorare le possibili conseguenze a lungo termine del crescere con genitori emotivamente immaturi, è fondamentale chiarire che cosa si intende con questa espressione.
Ecco alcuni comportamenti tipici di un genitore emotivamente immaturo:
Queste dinamiche, spesso invisibili, possono insinuarsi nei gesti quotidiani e lasciare segni profondi: l’adultizzazione.
Crescere con uno o entrambi i genitori emotivamente immaturi lascia spesso un’impronta profonda, anche se non sempre visibile. Chi vive questa esperienza impara presto ad adattarsi, a “farsi grande” prima del tempo, mettendo da parte i propri bisogni per gestire quelli degli adulti.
Il risultato? Un’infanzia accelerata, in cui la sicurezza emotiva diventa un lusso e l’autonomia una necessità precoce.
Quando un genitore riversa le proprie difficoltà emotive sul figlio, quest’ultimo può sviluppare un senso di dovere: “salvarlo”. E così:
In questi contesti i ruoli si invertono: i figli diventano genitori dei propri genitori. A rafforzare queste dinamiche ci sono la manipolazione emotiva e il controllo psicologico. I confini personali saltano, l’indipendenza viene ostacolata e l’autonomia soffocata.
Tutto questo compromette la possibilità di costruirsi la base essenziale per un buon funzionamento adulto.
Se ti sei riconosciuto in queste dinamiche, sappi che non è mai troppo tardi per riscrivere la tua storia. Acquisire la consapevolezza di essere stati adultizzati è un primo importante passo. Con gli strumenti giusti è possibile tornare a occuparsi di sé.
Ecco alcuni spunti che potrebbero accompagnarti in questo percorso:
Conclusione
Dopo la lettura di queste parole potresti aver trovato conferma che la tua infanzia ha avuto qualcosa di “diverso”, oppure potrebbe essere sorto il dubbio solo ora. Con questa consapevolezza potrebbero essere giunte emozioni forti: dolore, rabbia, confusione. È normale. Dare nome a ciò che si è vissuto non cancella il passato ma apre la possibilità di comprenderlo meglio e iniziare a prendersene cura. Ora puoi essere tu a scegliere.
Bibliografia
Dobrić, J., & Patrić, M. (2024). Parental emotional immaturity and its impact on child development: A systematic review. Developmental Psychology Review, 18(1), 23–39
Dobrić, T., & Patrić, A. (2024). The hidden face of parenting: emotional immaturity,SCIENCE International journal, 3(1), 145-148.
Gibson, L. C. (2015). Adult children of emotionally immature parents: How to heal from distant, rejecting, or self-involved parents. New Harbinger Publications.
Capita spesso di scambiare la calma con tristezza o vuoto, proprio perché siamo abituati a restare in uno stato costante di allerta.
Viviamo in una società che ci abitua a essere in movimento, sempre impegnati e stimolati. Fermarsi, a volte, può sembrare strano o addirittura sbagliato.
Riscoprire la calma non è sempre facile, ma è fondamentale per la salute fisica ed emotiva.
La sovrastimolazione avviene quando il sistema nervoso resta costantemente attivato, pronto a rispondere agli stimoli come se fossero emergenze continue. Se viviamo così a lungo, corpo e mente si abituano a essere sempre in allarme, rendendo difficile distinguere tra una minaccia reale e una preoccupazione interna. Quando finalmente cerchiamo di rilassarci proviamo disagio o inquietudine, perché il cervello ha imparato a interpretare la calma come insolita o improduttiva.
La sovrastimolazione può derivare dall’uso continuo di dispositivi digitali, ritmi lavorativi intensi e responsabilità familiari pressanti. In queste condizioni, il sistema nervoso simpatico (che ci prepara alle emergenze) è continuamente attivato, mentre il sistema parasimpatico (che gestisce il rilassamento) fatica ad attivarsi, mantenendo il corpo in costante tensione.
Dopo periodi intensi, in cui la mente è abituata a correre senza sosta tra impegni, stimoli e richieste continue, rallentare può generare una sensazione spiacevole.
Il silenzio sembra pesante, la calma assomiglia al vuoto, e spesso la interpretiamo come noia o tristezza.
Ma non è tristezza. È il sistema nervoso che sta cambiando ritmo.
Quando siamo sotto stress, il cervello si abitua a funzionare in modalità attacco-fuga, rilasciando ormoni come adrenalina e cortisolo. In quel ritmo accelerato ci sentiamo “vivi”, anche se stanchi.
Quando finalmente ci fermiamo, quella scarica costante si interrompe.
E ciò che sentiamo, in realtà, è il corpo che prova a tornare in uno stato di regolazione.
La calma è uno stato fisiologico di sicurezza e recupero, fondamentale per il benessere emotivo e fisico. Il problema non è la quiete, ma quanto siamo disabituati a tollerarla.
Riabituarsi richiede tempo, ma ne vale la pena: è proprio lì, nella calma autentica, che iniziamo davvero a sentirci meglio.
Imparare a riconoscere la calma per quello che è - uno spazio sicuro, rigenerante, pieno - è un atto di maturità emotiva.
Non sei triste solo perché ti fermi. Non sei vuoto solo perché c’è silenzio. Sei, semplicemente, in contatto con una parte di te che spesso trascuri: quella che non corre, non produce, non dimostra nulla.
Concederti momenti di quiete è un modo per riequilibrare il sistema, per ascoltarti davvero, per ricordare che non sei fatto solo di stimoli e movimento.
La calma non è una mancanza da riempire. È una risorsa da coltivare.
Bibliografia
"Mi spiace per la discussione, sarà il caldo che mi fa impazzire".
È uno stereotipo noto quello secondo cui le persone, con l’arrivo del caldo intenso, tendano a essere più irritabili. Molti di noi si sentono nervosi e più inclini a discussioni anche per questioni di poco conto. Non è solo una sensazione soggettiva: il caldo può davvero influenzare il nostro equilibrio psicologico e aumentare i livelli di stress e ansia.
Quando la temperatura esterna è molto alta, il nostro corpo deve attivare una serie di meccanismi per mantenere stabile la temperatura interna.
Questo processo, ovvero la termoregolazione, richiede uno sforzo fisiologico importante. La fatica che fa il nostro organismo ha un impatto anche sul cervello, che riceve segnali di “allerta” legati al pericolo di surriscaldamento.
Il risultato è un’attivazione più frequente del sistema nervoso simpatico, responsabile delle risposte di emergenza (attacco, fuga, o congelamento). È lo stesso sistema che entra in azione quando siamo in ansia o sotto stress. Questo stato di allerta costante riduce la nostra capacità di mantenere la calma e gestire con lucidità situazioni anche banali.
Studi neuroscientifici mostrano che l’eccesso di calore può influenzare diverse funzioni cognitive ed emotive:
In questo stato alterato, siamo più portati a reagire d’istinto piuttosto che con razionalità. È più difficile “contare fino a dieci”, perché le risorse cognitive sono impegnate nella gestione dello stress fisico. Discussioni su questioni semplici - cosa mangiare, dove andare, come organizzare la giornata - diventano rapidamente conflitti accesi. Anche in vacanza.
Inoltre, il caldo può aumentare i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, e interferire con la produzione di serotonina, che contribuisce alla regolazione dell’umore. Questo crea un terreno favorevole a nervosismo, inquietudine, irritabilità, ma anche ansia e malinconia.
Se senti sopraffazione e ansia nelle giornate torride, potresti adottare questi accorgimenti:
Quando senti il cuore accelerare, cerca un posto tranquillo e prova a fare qualche respiro profondo e lento, inspirando dal naso per 4 secondi, trattenendo l’aria per 4, e poi espirando lentamente dalla bocca per 6 secondi. Questa tecnica aiuta a calmare il sistema nervoso.
Evita sbalzi di temperatura troppo bruschi, come entrare e uscire continuamente da ambienti molto condizionati. Prova piuttosto docce tiepide o bagni ai polsi e al collo, dove passano le arterie principali.
Forse è scontato, ma ricordati di bere acqua anche se non hai sete, perché la disidratazione peggiora la sensazione di stanchezza e irritabilità.
Se ti è possibile, cerca di rimandare attività impegnative alle ore meno calde, o alterna momenti di movimento a pause all’ombra.
Se hai già una tendenza all’ansia, il caldo torrido può scatenare veri e propri attacchi di panico, soprattutto quando sei fuori casa e ti senti vulnerabile.
Preparare sempre con te acqua fresca e qualche bustina di zucchero può aiutare a gestire i sintomi fisici (come il senso di svenimento o il tremore), ma è importante ricordare che il caldo non è l'unica fonte di malessere: l’ansia amplifica le sensazioni fisiche e può farti interpretare normali segnali corporei come segnali di pericolo imminente.
Il pensiero catastrofico (cioè l’idea che “sta succedendo qualcosa di gravissimo”) è una trappola mentale molto comune negli attacchi di panico. Sapere che questi pensieri sono frutto di un’allerta eccessiva del cervello, non di una reale minaccia, può aiutarti a prenderli con più distacco.
Fonti
Baecker, L., Iyengar, U., Del Piccolo, M. C., & Mechelli, A. (2025). “Impacts of extreme heat on mental health: Systematic review and qualitative investigation of the underpinning mechanisms.” The Journal of Climate Change and Health, 22, 100446. https://doi.org/10.1016/j.joclim.2025.100446
Pappas, S. (2024, June 1). How heat affects the mind. Monitor on Psychology, 55(4). https://www.apa.org/monitor/2024/06/heat-affects-mental-health
La sessualità è ovunque: ne parlano i media, i social, persino le pubblicità. Ma nonostante tutta questa esposizione, alcune esperienze restano nell’ombra. Una di queste, poco compresa e spesso ridotta a stereotipo, è l’asessualità.
Essere asessuali vuol dire non provare attrazione sessuale verso altre persone, un concetto che ancora oggi può risultare poco chiaro e generare incomprensioni.
È fondamentale sottolineare subito che non provare attrazione sessuale non significa non provare affetto, emozioni o il desiderio di stabilire legami affettivi o romantici profondi con gli altri. L'asessualità è infatti considerata un orientamento sessuale a tutti gli effetti, caratterizzato dall'assenza di attrazione sessuale, e può manifestarsi in diversi gradi e modalità, dalle esperienze totalmente prive di attrazione a quelle caratterizzate da un interesse molto limitato o condizionato.
L’asessualità è un termine ombrello che include l'esperienza di molte persone diverse.
Alcune non provano attrazione sessuale in nessun contesto, mentre altre possono sperimentarla in circostanze specifiche o con determinate persone - è il caso, ad esempio, delle persone demisessuali, che provano attrazione sessuale solo quando si instaura un forte legame emotivo. Altre ancora si identificano come gray-asessuali (o grigi-asessuali), perché vivono l’attrazione in modo raro o incostante.
In altre parole, le persone asessuali non hanno tutte ugualmente un disinteresse totale per il sesso. Infatti, in alcuni casi possono scegliere di avere rapporti per piacere, per curiosità o per rafforzare l’intimità con il partner; in altri, invece, preferiscono evitarli del tutto. L’asessualità non definisce ciò che si fa, ma ciò che si prova o, meglio, ciò che non si prova. Inoltre, tra le persone asessuali ci sono anche preferenze diverse rispetto alle relazioni sentimentali: alcune si innamorano e desiderano relazioni romantiche, altre non provano attrazione romantica ma costruiscono comunque relazioni significative, basate sull’affetto, la complicità e la cura reciproca.
Nonostante l’asessualità sia un orientamento sessuale a tutti gli effetti, spesso non viene riconosciuta o discussa con apertura - nemmeno all’interno delle stesse comunità LGBTQ+. Questa invisibilità può far sentire chi si identifica come asessuale escluso, non rappresentato, o addirittura “sbagliato”.
In un contesto culturale in cui la sessualità è vista come un indicatore di salute, maturità o desiderabilità, non provare attrazione in tal senso viene talvolta percepito come un’anomalia da correggere.
Molte persone asessuali si sono sentite dire che “è solo una fase”, che “devono ancora trovare la persona giusta” o che hanno semplicemente un blocco psicologico da risolvere. Questo atteggiamento contribuisce a una vera e propria patologizzazione dell’asessualità, che viene letta come un sintomo di trauma, depressione o repressione. Non è raro che queste persone si sentano spinte a cambiare, a sottoporsi a terapie non richieste o a forzarsi in relazioni e comportamenti che non rispecchiano il proprio sentire autentico.
Queste pressioni sociali, spesso accompagnate da un senso di inadeguatezza o di solitudine, possono avere un impatto significativo sul benessere psicologico.
Riconoscere e validare l’asessualità come esperienza autentica - non come mancanza o difetto - è fondamentale non solo per chi la vive, ma anche per costruire una società più inclusiva, capace di accogliere la diversità dei modi in cui si può vivere l’affettività, il desiderio e le relazioni.
Se ti riconosci in questa descrizione e stai cercando qualche consiglio per iniziare il tuo percorso, prova a considerare questi suggerimenti:
Bibliografia
Durante una cena un nostro amico racconta con entusiasmo la sua ultima vacanza: lo ascoltiamo e immaginiamo quanto sarebbe bello visitare quei luoghi.
Apriamo i social e compare la foto di un influencer che seguiamo: il suo fisico scolpito ci ricorda che forse potremmo prenderci più cura di noi. Poi, ci chiama una nostra collega, ci racconta felice della sua promozione e ci chiediamo se stiamo facendo abbastanza per avanzare nella nostra carriera.
Sono sicura che anche la tua mente, almeno una volta nella vita, è stata attraversata da un pensiero simile. Paragonarsi agli altri è normale e a volte ci incoraggia a migliorare. Altre volte, invece, confrontare la propria vita a quelle “perfette” degli altri diventa eccessivo e può portare a sperimentare senso di inadeguatezza e frustrazione.
È un fenomeno molto recente e estremamente legato ai social, che prende il nome di comparansia, ossia ansia da confronto sociale. Tale condizione non è presente nel Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM) ma può avere un impatto significativo sul benessere, ad esempio minando l’autostima e contribuendo a un senso di insoddisfazione costante.
La comparansia nasce da un insieme di fattori psicologici e sociali, amplificati dall’uso dei social media. Ecco alcune delle principali dinamiche che la alimentano:
Paragonarsi agli altri non ha solo aspetti negativi: può motivare, può aiutarci a crescere, può farci apprendere e ci può ispirare. È bene, però, che il confronto con le vite altrui non diventi distruttivo. Se, ogni tanto, ti capita di pensare di avere meno valore degli altri ti diamo qualche idea per favorire un’idea di te più equilibrata:
Conclusione
Paragonare la vita degli altri alla tua senza tenere conto dell’unicità di ognuno è estremamente fuorviante. Ognuno ha il proprio ritmo, ha a disposizione strumenti e risorse diverse e porta con sé esperienze personali uniche. Tutti questi elementi contribuiscono a renderci quello che siamo.
Non lasciare che il confronto con gli altri ti distragga e ti faccia perdere fiducia nelle tue capacità. Ognuno ha il suo percorso e misurarsi costantemente con gli altri può impedire di apprezzare quanto stai crescendo.
BIBLIOGRAFIA
Verduyn, P., Gugushvili, N., Massar, K., Täht, K., & Kross, E. (2020). Social comparison on social networking sites. Current Opinion in Psychology, 36, 32-37. https://doi.org/10.1016/j.copsyc.2020.04.002
Schmuck, D., Karsay, K., Matthes, J., & Stevic, A. (2019). Looking Up and Feeling Down: The Influence of Mobile Social Networking Site Use on Upward Social Comparison, Self-Esteem, and Well-Being of Adult Smartphone Users. Telematics and Informatics, 42, Art.No. 101240. https://doi.org/10.1016/j.tele.2019.101240
Why Social Comparison on Instagram Matters: Its impact on Depression. (2019, March 31). KSII Transactions on Internet and Information Systems. Korean Society for Internet Information (KSII). https://doi.org/10.3837/tiis.2019.03.029
Il nostro modo di godere della vita è radicalmente cambiato negli ultimi decenni.
Fino a poco tempo fa viaggiare significava perdersi nel qui ed ora, e una cena con gli amici era un’occasione intima di serenità, da custodire quasi segretamente.
Oggi qualcosa si è rotto, e lo sappiamo.
Non tanto perché abbiamo smesso di viaggiare o di stare insieme, ma perché spesso non siamo più davvero lì quando ciò avviene. L’esperienza non è più fine a se stessa, ma un mezzo: per mostrarla, raccontarla e mettere una spunta nelle esperienze piacevoli da aver vissuto almeno una volta.
Abbiamo trasformato il piacere in prestazione: il viaggio deve essere unico, instagrammabile, meglio se mai visto.
Un’esperienza consueta non basta più. Anche il tempo libero diventa competitivo, oggetto di valutazione. La compagnia degli amici si riduce a una foto, una cena è un’occasione per far vedere cosa mangiamo, dove siamo, con chi.
Perciò, viviamo tutto come se ci fosse un pubblico invisibile da stupire.
Ma chi è davvero quel pubblico? Gli altri? O noi stessi, in una versione idealizzata che vogliamo costruire, convincendoci che stiamo vivendo “bene”?
Il risultato è che fatichiamo a stare nel momento. Durante un’esperienza bella, anziché lasciarci attraversare, già pensiamo alla prossima. Alla foto da scattare, a come raccontarla. La testa corre avanti, e noi smettiamo di esserci.
Secondo la stessa logica, anche il piacere del viaggio si è trasformato in un’esibizione e in un’ansia continue. Si viaggia come forsennati, stipati nei fine settimana, incastrando ore e minuti come pezzi di un puzzle che deve combaciare alla perfezione.
Ogni dettaglio deve essere ottimizzato, ogni momento pieno, ogni tappa documentata.
Non appena abbiamo “divorato” una meta famosa, pensiamo già alla prossima avventura di cui ingozzarci. Anzi, spesso la stiamo cercando con la bocca ancora piena, incapaci di digerire ciò che abbiamo appena vissuto.
Il viaggio, da nutrimento dell’anima, è diventato un buffet da cui usciamo strapieni, ma non nutriti.
Il consumismo esperienziale nasce dalla stessa logica che alimenta quello materiale: accumulare per sentirsi di più. Solo che invece degli oggetti, collezioniamo momenti, viaggi, emozioni, da consumare in fretta e mostrare agli altri.
In un mondo dove l’identità si costruisce anche online, vivere esperienze straordinarie diventa una forma di status. Ma questa ricerca costante di “più bello”, “più nuovo”, “più intenso” crea assuefazione: ci abituiamo rapidamente al piacere e ne vogliamo subito un altro. L’esperienza perde la sua ricchezza e diventa una prestazione. Non c’è più spazio per la noia, per la semplicità, per l’imperfezione.
Così, invece di arricchirci, ci svuota.
Le esperienze non si accumulano: si attraversano.
E quelle che lasci entrare davvero, restano.
Fonti
Pine, B. J., & Gilmore, J. H. (2011). The experience economy: Updated edition. Harvard Business Review Press.
Tanhan, F., Özok, H. I., & Tayiz, V. (2022). Fear of missing out (FoMO): A current review. Psikiyatride Güncel Yaklaşımlar / Current Approaches in Psychiatry, 14(1), 20–34. Retrieved from https://www.cappsy.org
Van Boven, L., & Gilovich, T. (2003). To do or to have? That is the question. Journal of Personality and Social Psychology, 85(6), 1193–1202. https://doi.org/10.1037/0022-3514.85.6.1193
L’amicizia è spesso considerata secondaria rispetto alle relazioni romantiche o familiari, ma il suo valore non è affatto inferiore. L’idea che l’essere umano sia un animale sociale non è solo una teoria filosofica: anche le ricerche contemporanee lo confermano. Infatti, la letteratura scientifica mostra chiaramente quanto il nostro benessere dipenda dalla quantità e, soprattutto, dalla qualità delle relazioni presenti nella nostra vita. Uno studio emblematico, diretto dal Professor R. Waldinger e in corso da 86 anni, ha evidenziato che ciò che rende la vita appagante e ricca di significato sono proprio le relazioni. Più queste sono forti, infatti, più è probabile che si viva felici, soddisfatti e in salute.
La frenesia della società contemporanea spesso ci porta a essere troppo impegnati a gestire il lavoro e la vita quotidiana, con il rischio di trascurare ciò che ci fa stare bene, come passare del tempo con gli amici. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che investire tempo e risorse nelle relazioni interpersonali è prezioso per il proprio benessere. I benefici di coltivare amicizie autentiche sono numerosi:
In definitiva, le relazioni autentiche non sono solo una fonte di conforto, ma una vera e propria strategia di benessere a lungo termine.
In alcuni periodi di vita può risultare complicato mantenere delle relazioni sociali. Ciò che possiamo tenere a mente è che, per mostrare a un amico la nostra presenza, sono sufficienti piccoli gesti.
Alcune strategie utili per rafforzare i legami che fanno parte della tua vita sono:
Conclusione
"Chi trova un amico trova un tesoro" non è solo un proverbio, ma una verità profonda. Con un vero amico ci si sente a proprio agio, possiamo essere noi stessi ed è più facile parlare di tutto. Specialmente quando ci sentiamo in difficoltà e ci sembra che niente e nessuno potrebbe aiutarci o farci stare meglio, percepire che qualcuno ci supporta è molto importante. Ma l’amicizia non si nutre da sola: ha bisogno di gesti, di parole, di presenza. E a volte basta pochissimo. Un messaggio, una telefonata, un “ti penso” nel momento giusto possono diventare piccoli ancoraggi nelle giornate di chi amiamo.
Allora perché aspettare? Prenditi un minuto ora, manda quel messaggio, fai sapere a quella persona quanto è importante per te. È proprio da questi gesti semplici che nascono i legami che ci tengono in piedi, ci scaldano il cuore e rendono la vita più bella.
Fonti
Martino, J., Pegg, J., & Frates, E. P. (2015). The Connection Prescription: Using the Power of Social Interactions and the Deep Desire for Connectedness to Empower Health and Wellness. American journal of lifestyle medicine, 11(6), 466–475. https://doi.org/10.1177/1559827615608788
Gable, S. L., & Bedrov, A. (2022). Social isolation and social support in good times and bad times. Current opinion in psychology, 44, 89–93. https://doi.org/10.1016/j.copsyc.2021.08.027
Gable, S. L., Reis, H. T., Impett, E. A., & Asher, E. R. (2004). What do you do when things go right? The intrapersonal and interpersonal benefits of sharing positive events. Journal of personality and social psychology, 87(2), 228–245. https://doi.org/10.1037/0022-3514.87.2.228
Waldinger, R., & Schulz, M. (2023). The good life: Lessons from the world’s longest scientific study of happiness. Simon and Schuster.
La psicoterapia è più un punto di partenza che un obiettivo. Spesso ci viene in mente un pensiero semplice ma faticoso da accogliere: “Forse dovrei parlarne con qualcuno”. E subito dopo ci frena un altro pensiero: “Ma non sto poi così male”.
Di solito cerchiamo aiuto solo quando ci sentiamo persi, sopraffatti o stanchi. C’è l’idea che la psicoterapia sia solo per chi sta davvero male, come se dovessimo toccare il fondo per meritarci un po’ di ascolto. Ma non è così. Non serve essere perfetti o a pezzi per cominciare. Iniziare una psicoterapia è uno spazio in cui puoi presentarti per quello che sei, senza dover dimostrare nulla. È un luogo dove puoi fermarti, rallentare e ascoltarti, senza fretta e senza giudizi.
Quando pensiamo a chi va in terapia, immaginiamo spesso persone con una diagnosi o in un momento difficile della vita. In realtà, molte persone vanno in terapia psicologica per affrontare piccoli blocchi, tensioni quotidiane o domande a cui non sanno rispondere.
Magari hanno una relazione che non funziona, stanno affrontando un cambiamento complicato o si sentono vuoti senza sapere il perché. Puoi iniziare un percorso terapeutico per sentirti meglio, per conoscerti di più o semplicemente per avere uno spazio solo tuo, che magari nella vita di tutti i giorni non hai.
La psicoterapia è anche un modo per prendersi cura della propria salute mentale prima che le cose diventino difficili.
Una delle paure più comuni prima di iniziare è quella di non sapere da dove partire. Molti si chiedono: “E se non avessi niente da dire?” o “E se mi bloccassi?”. Anche il pensiero di non sapere cosa possa succedere a volte crea ansia.
Ma un colloquio con un terapeuta non è un esame e non ci si aspetta un racconto perfetto. Non serve avere un discorso chiaro o un elenco di problemi, perché si può iniziare dalla confusione, dal silenzio o da una sensazione indefinita. Anche il non sapere è un contenuto prezioso, ed è proprio questo che rende il percorso psicologico così profondo: la possibilità di esplorare, insieme, ciò che ad ora è senza nome.
Alcune persone iniziano con l’unica certezza di voler semplicemente sentirsi meglio, e questa da sola è una motivazione sufficiente. Gli obiettivi, se presenti, possono essere definiti insieme nel tempo. Potrebbero cambiare durante il percorso o rimanere in secondo piano. La terapia non richiede risposte immediate, ma piuttosto il desiderio di ascoltarsi, anche quando tutto sembra poco chiaro.
Spesso rimandiamo l’inizio a “quando avrò più tempo,” “quando sarò più calmo,” o “quando capirò meglio cosa mi succede.” Spesso quel momento non arriva mai, se usiamo questi criteri. Ogni giorno può essere buono per iniziare una terapia psicologica: quando ti senti stanco, quando le relazioni sono pesanti, o quando hai bisogno di un po’ di spazio. A volte si tratta solo di piccole pressioni, la voglia di fermarti, o una domanda che ti frulla in testa. Anche questi segnali meritano attenzione.
Non c’è bisogno di arrivare preparati, né di avere tutte le risposte o un motivo preciso. A volte, l’unico vero requisito per iniziare è sentire che qualcosa dentro di noi chiede attenzione. Iniziare un percorso terapeutico non è un’ammissione di debolezza, bensì un gesto di responsabilità verso il proprio benessere mentale. È dire: “Quello che sento merita ascolto”.
Significa riconoscersi il diritto di stare meglio, di capirsi, e di cambiare direzione se necessario. Puoi iniziare da dove sei, anche con i tuoi dubbi e la paura di non essere “abbastanza”. Ed è proprio da lì, partendo da quella verità imperfetta, che può nascere qualcosa di nuovo.
Prendersi cura di sé è il primo passo per stare meglio. Con se stessi, e con gli altri.
FONTI
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Gabbard, G. O. (2010). Psychodynamic psychiatry in clinical practice (5th ed.). American Psychiatric Publishing.
Linehan, M. M. (1993). Cognitive-behavioral treatment of borderline personality disorder. Guilford Press.
Norcross, J. C., & Wampold, B. E. (2011). Evidence-based therapy relationships: Research conclusions and clinical practices. Psychotherapy, 48(1), 98–102. https://doi.org/10.1037/a0022161
Rogers, C. R. (1957). The necessary and sufficient conditions of therapeutic personality change. Journal of Consulting Psychology, 21(2), 95–103.
Succede ogni giorno, in contesti diversi.
Ci viene chiesto “Come stai?” e rispondiamo “Bene, grazie” in modo automatico, anche quando non è completamente vero. Succede al supermercato, per cortesia; con gli amici, per evitare di sembrare pesanti; sul lavoro, per paura di mostrarsi vulnerabili.
Ma la verità è che tutti attraversiamo momenti difficili, e concederci il diritto di essere sinceri, almeno con le persone giuste, potrebbe aiutarci a vivere relazioni più autentiche, migliorare il nostro benessere emotivo e anche a trovare conforto.
Non c’è nulla di sbagliato nel dire “oggi non è una gran giornata”. Anzi, potrebbe essere il primo passo per sentirci davvero ascoltati e favorire una maggiore consapevolezza emotiva.
Naturalmente il contesto e il rapporto con l’interlocutore giocano un ruolo enorme sul come rispondiamo.
Fingere di stare bene è un meccanismo che molte persone adottano per diverse ragioni.
Sicuramente la cultura contemporanea ha un ruolo: essa mette al primo posto felicità, benessere e successo e ci chiede (anzi pretende) di essere, o meglio di mostrarci, sempre “al top”. Ammettere momenti di difficoltà psicologiche ci potrebbe allontanare dalle aspettative che la società impone.
I motivi, però, possono essere anche di natura più personale.
Fingere che tutto vada bene può essere faticoso e controproducente: mentire sulle difficoltà che si stanno attraversando o negare che ci siano non fa che ritardare l’opportunità di affrontarle davvero e risolverle.
Potrebbe sorprenderti scoprire che essere autentici ti permetterà di costruire relazioni interpersonali più solide e profonde e che essere sinceri può incoraggiare gli altri ad aprirsi, creando un ambiente di fiducia e supporto in cui poter condividere le difficoltà emotive e trovare comprensione.
Quindi:
Condividere con gli altri che si sta vivendo un momento difficile non è semplice. Per questo è fondamentale trovare le persone giuste e il contesto adeguato per esprimere ciò che sentiamo.
Non sempre gli interlocutori che scegliamo e le circostanze in cui ci troviamo permettono di ricevere il sostegno che cerchiamo.
In questi casi, ci si può rivolgere a un professionista.
Infatti, aprirsi è un percorso, e non deve avvenire forzatamente o con chiunque.
Se ne senti la necessità, una terapia psicologica potrà offrirti un ascolto sincero e strumenti per affrontare le difficoltà, aiutandoti a comprendere e gestire le emozioni in modo più efficace.
FONTI
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Scott, B. A. & Barnes, C. M. (2011) A Multilevel Field Investigation of Emotional Labor, Affect, Work Withdrawal, and Gender. Academy of Management Journal; 54(1): 116-136.
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Seger-Guttmann, T., & Medler-liraz, H. (2015). The Costs of Hiding and Faking Emotions: The Case of Extraverts and Introverts. The Journal of Psychology, 150(3), 342–357. https://doi.org/10.1080/00223980.2015.1052358
La società contemporanea ci induce a vivere a un ritmo frenetico, alimentato dall’avanzamento tecnologico che ci mantiene costantemente connessi.
Il rischio è quello di trovare spazio in agenda per tutto, tranne che per noi stessi.
Spesso finiamo quindi per desiderare una fuga, o un cambiamento radicale.
Non è detto, però, che scappare sia ciò che davvero desideriamo. Non da tutto almeno, ma da quel vortice quotidiano che ci prosciuga: notifiche, doveri, ruoli, aspettative.
Quando sentiamo il bisogno di “fuggire”, spesso non stiamo cercando evasione, ma respiro mentale.
È il segnale che qualcosa dentro di noi chiede una pausa rigenerativa, uno spazio in cui ricaricarsi e tornare a sentirsi interi, con effetti positivi sulla nostra salute mentale.
Non tutte le persone sono in grado di concedersi delle pause con facilità. I motivi possono essere diversi e spesso si intrecciano con emozioni profonde e dinamiche quotidiane.
Alcuni possono temere di deludere le aspettative degli altri o le proprie. Come molti genitori che si sentono in colpa se non dedicano ogni minuto ai propri figli, o quei manager che pensano di dover essere sempre disponibili, anche nelle ore di riposo.
Altri si mantengono occupati per rifuggire da pensieri ed emozioni spiacevoli, magari legate a situazioni di stress o disconnessione da sé stessi.
C’è chi avverte senso di colpa al pensiero di fermarsi, e sente nella propria testa una voce che dice “non ho fatto abbastanza”.
E poi ci sono quelli per cui è impossibile delegare, convinti che, se non se ne occuperanno in prima persona, il risultato sarà disastroso.
Ma la verità è che il vero disastro è non dedicarsi del tempo.
In fondo, cosa può succedere di così drammatico se ci prendiamo cura di noi stessi?
Invece di pensare a ciò che potrebbe andare storto, potremmo chiederci:
“Che opportunità potrebbero aprirsi se oggi decidessi di prendermi cura di me stesso?”
Proprio come le batterie che necessitano di essere ricaricate, anche le nostre risorse fisiche e mentali hanno dei limiti.
Quando queste si esauriscono, emergono stanchezza, sovraccarico e stress emotivo.
La buona notizia è che prendersi una pausa può essere proprio ciò che serve per ritrovare benessere psicologico.
Le proposte che abbiamo elencato sono solo alcune idee da cui puoi trarre ispirazione per trovare il modo più adatto a te di prenderti una pausa consapevole.
Non serve necessariamente avere molto tempo o risorse economiche: anche piccoli gesti quotidiani possono avere un impatto positivo sul tuo benessere emotivo.
Scambiare qualche parola con un collega durante una pausa caffè, per esempio, può alleggerire la giornata.
Se però senti che il lavoro, le responsabilità o l’ansia ti impediscono di fermarti e occuparti del tuo equilibrio, il primo passo potrebbe essere quello di chiedere supporto professionale.
Riconoscere il bisogno di cura non è un segno di debolezza, ma un atto di profondo rispetto verso te stesso.
FONTI
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Hartig, T., Catalano, R., Ong, M., & Syme, S. L. (2013). Vacation, collective restoration, and mental health in a population. Society and Mental Health, 3(3), 221–236.
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Ríos-Rodríguez, M. L., Rosales, C., Hernández, B., & Lorenzo, M. (2024). Benefits for emotional regulation of contact with nature: A systematic review. Frontiers in Psychology, 15
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Taylor, S. E. (2011). Social Support: A Review. In H. S. Friedman (Ed.), The Oxford Handbook of Health Psychology (pp. 189–214). Oxford University Press2
Così viene comunemente chiamata da studiosi e non: un contesto in cui il valore della persona sembra dipendere, sempre più spesso, da ciò che riesce a fare, dimostrare, produrre. In questo scenario dominato dalla pressione sociale alla produttività, l’agire diventa più importante dell’essere, e il successo — in qualunque ambito — diventa quasi un imperativo, alimentando forme diffuse di ansia da prestazione.
Il filosofo coreano Byung-Chul Han, nel suo libro “La società della stanchezza”, descrive con lucidità questa tendenza: oggi non siamo più governati da un sistema repressivo, ma da una pressione interna a essere sempre produttivi, efficienti, prestazionali.
Non serve più un capo che impone: ci auto-sorvegliamo, ci spingiamo oltre i limiti, nel tentativo di corrispondere a un ideale di efficienza continua.
Da un certo punto di vista, è molto più efficace creare un contesto sociale in cui il “dittatore” è interiorizzato: obbediamo di buon grado ai nostri stessi ordini, spesso senza renderci conto delle conseguenze sul nostro benessere psicologico.
Questa mentalità non riguarda solo chi lavora in contesti iper-competitivi come la finanza, la tecnologia o le grandi aziende, ma si infiltra silenziosamente anche nella vita quotidiana, nelle università, negli uffici, nelle famiglie.
Essere performanti e perfetti è diventato un modello invisibile, ma potentissimo. Eppure pochi ne parlano apertamente.
Lo si può osservare spesso nel lavoro clinico: studenti con ansia da prestazione che non riescono a lasciare da parte i manuali se non li conoscono a memoria, giovani professionisti che si sentono costantemente inadeguati anche di fronte a piccoli errori, o ancora genitori perfezionisti che si colpevolizzano per ogni sbaglio commesso con i propri figli.
Questa ricerca esasperata di controllo e perfezione non è solo una questione di ambizione; spesso è il segnale di qualcosa di più profondo: la paura di non essere riconosciuti, il timore di essere meritevoli di affetto e felicità solo se si è impeccabili, smussati in ciascun difetto.
E così, anche se all’esterno possiamo apparire “brillanti”, dentro ci si può sentire sempre in affanno. Come se ogni cosa che facciamo o diciamo dovesse continuamente dimostrare il nostro valore personale.
Forse i nostri limiti e le nostre imperfezioni avrebbero bisogno di essere guardati con più gentilezza e attenzione, perché sono proprio loro a custodire la nostra autenticità e il nostro valore individuale.
Dal punto di vista psicologico, accettare i propri limiti non deve significare rassegnarsi, ma riconoscere che il valore personale non dipende dalla misurabilità di una nostra prestazione.
Spesso è il pensiero rigido — “se non sono impeccabile, non valgo” — a generare sofferenza più del limite stesso.
In altre parole, non è l’insuccesso a farci soffrire, ma il significato che gli attribuiamo.
Un significato spesso appreso in contesti che premiano la produttività a ogni costo, e che ignorano la complessità della salute mentale.
Han, B. (2020). La società della stanchezza.
Le notizie sulle conseguenze del cambiamento climatico sono sempre più frequenti e possono influire sul nostro benessere mentale. La maggiore consapevolezza riguardo alla salute del pianeta può essere costruttiva e portare all’adozione di abitudini sostenibili. Se però questa consapevolezza sfocia in una preoccupazione costante e intensa, accompagnata dalla sensazione di sentirsi profondamente incapaci di agire, potrebbe trattarsi di ecoansia.
Solo negli ultimi anni si è iniziato ad approfondire il legame tra cambiamento climatico e salute mentale. Le ricerche più recenti hanno individuato tre modalità principali attraverso cui il clima impatta sul benessere psicologico:
Queste esperienze possono generare l’idea che il problema climatico sia inarrestabile, alimentando frustrazione e senso di impotenza. In alcuni casi, per difendersi da emozioni opprimenti, si può arrivare anche a negare l’esistenza del problema climatico.
Non dobbiamo però sottovalutare come ci sentiamo.
Essere esposti — direttamente o attraverso i media — a eventi estremi può contribuire allo sviluppo o al peggioramento di disturbi come ansia, depressione, insonnia e persino pensieri suicidari.
Uno studio condotto su oltre 52.000 persone in 25 Paesi europei ha rivelato che quasi la metà dei partecipanti si sente molto o estremamente preoccupata per il cambiamento climatico.
Un’altra ricerca, su giovani under 25 di 10 Paesi, ha evidenziato che il 45% ritiene che l’ansia climatica influenzi negativamente la propria vita quotidiana.
Essere preoccupati per le condizioni del pianeta è normale e può rappresentare una spinta positiva all’azione. Ma quando l’ansia e la frustrazione diventano paralizzanti o ossessive, è importante chiedere supporto.
Anche se l’ecoansia non è ancora riconosciuta come diagnosi clinica, può essere utile parlarne con un professionista per tutelare la propria salute mentale.
Per approfondire l’argomento “ecoansia”, qui trovi il nostro intervento a SayWaaad? per Radio Deejay.
FONTI
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Baudon, P., & Jachens, L. (2021). A scoping review of interventions for the treatment of eco-anxiety. International Journal of Environmental Research and Public Health, 18
Betro’, S. (2024). From eco-anxiety to eco-hope: Surviving the climate change threat. Frontiers in Psychiatry, 15, Article 1429571.
Cosh, S., Ryan, R., Fallander, K. et al. The relationship between climate change and mental health: a systematic review of the association between eco-anxiety, psychological distress, and symptoms of major affective disorders. BMC Psychiatry 24, 833 (2024). https://doi.org/10.1186/s12888-024-06274-1
Niedzwiedz, C., & Katikireddi, S. V. (2023). Determinants of eco-anxiety: Cross-national study of 52,219 participants from 25 European countries. The European Journal of Public Health, 33(Supplement_2)
Nieuwenhuijsen, M. J. (2024). Climate crisis, cities, and health. The Lancet, 394
Ursano RJ, Morganstein JC, Cooper R. Resource Document on Mental Health and Climate Change . American Psychiatric Association. Available online at: https://www.psychiatry.org/getattachment/b7fb9e58-86f7-4b54-bd32-59fb50f32d9c/Resource-Document-2017-Mental-Health-Climate-Change.pdf (Accessed March 8, 2024).
Nella società contemporanea, sempre più orientata alla performance e al controllo, non è raro imbattersi in pazienti che sviluppano un meccanismo di difesa particolarmente insidioso: l’intellettualizzazione. Si tratta di un processo inconscio che porta a costruire teorie sulle proprie emozioni, impedendo sostanzialmente di viverle. La sofferenza viene trasformata in un problema da analizzare, piuttosto che in un’esperienza da attraversare. Ma cosa significa realmente? E quali sono le conseguenze per il nostro benessere psicologico?
L’intellettualizzazione è un meccanismo di difesa psicologico attraverso il quale le emozioni vengono gestite esclusivamente sul piano cognitivo, evitando di sperimentarle nella loro pienezza. Chi utilizza questo schema tende a spiegare razionalmente i propri stati d’animo senza entrarci davvero in contatto. Frasi come “So che quello che mi è successo è stato traumatico, ma ormai è passato” o “Capisco che dovrei essere arrabbiato, ma non ha senso sprecare energie” sono tipiche di chi intellettualizza le proprie emozioni.
L’intellettualizzazione delle emozioni può nascere come risposta a un contesto familiare in cui i vissuti emotivi non erano accolti o venivano visti come segni di debolezza. Se da bambini ci è stato insegnato a “non fare drammi”, a “pensare con la testa e non con il cuore”, o se le nostre emozioni sono state minimizzate o ignorate, è possibile che da adulti abbiamo imparato a distaccarci emotivamente, trasformando le sensazioni in concetti astratti.
Inoltre, il contesto sociale sempre più orientato al controllo e alla dimensione prestazionale può sfavorire l’accettazione emotiva. Questo meccanismo si attiva soprattutto di fronte a situazioni di stress o dolore psichico. Pensare le emozioni, invece di sentirle, dà un senso di controllo: una protezione illusoria contro la sofferenza. Tuttavia, questa distanza emotiva può impedire la reale elaborazione emotiva, mantenendo il disagio sullo sfondo.
Evitare di sentire le emozioni non significa eliminarle. Al contrario, le emozioni represse trovano spesso altre vie per esprimersi: ansia, somatizzazioni, senso di vuoto, difficoltà nelle relazioni affettive. Si rischia di perdere il contatto con se stessi, vivendo in un costante stato di analisi senza mai permettersi di essere.
Chi ricorre all’intellettualizzazione in modo eccessivo spesso fatica a riconoscere i propri bisogni emotivi e può avere difficoltà a costruire relazioni autentiche, poiché queste richiedono vulnerabilità e apertura emotiva. Inoltre, quando certi meccanismi di difesa si radicano, possono compromettere anche la capacità di provare emozioni piacevoli, non solo quelle dolorose.
• Riconoscere il problema: il primo passo è accorgersi di questo schema. Ti capita di ragionare sulle tue emozioni più e più volte, senza venirne a capo?
• Dare spazio alle emozioni: provare a sentire, senza giudizio, ciò che emerge dentro di noi. A volte basta fermarsi, respirare e chiedersi: cosa sto provando in questo momento?
• Esprimere senza giustificare: le emozioni non devono sempre avere una spiegazione logica. Possiamo essere tristi, arrabbiati o delusi senza doverlo legittimare con una teoria.
• Coltivare la connessione corporea: attività come la meditazione, lo yoga o il movimento consapevole possono aiutare a rientrare in contatto con il proprio mondo emotivo.
• Chiedere aiuto professionale: se l’intellettualizzazione diventa un ostacolo alla salute mentale, un percorso terapeutico può aiutare a riconnettersi con il proprio sentire in modo più autentico.
Sentire le emozioni può essere spaventoso, ma è anche l’unico modo per elaborarle davvero. Pensarle soltanto non basta: il dolore non si dissolve con un ragionamento logico, ma con l’esperienza autentica dell’emozione. Solo quando ci permettiamo di sentire possiamo trasformare ciò che proviamo e liberarci da schemi difensivi che ci tengono bloccati.
Fonti:
Lingiardi, V., & Madeddu, F. (2023). I meccanismi di difesa. Teoria, valutazione, clinica.
González, Á. (2018). Non sono io: Imparando a comprenderci.
Hai mai notato come, in alcuni giorni o settimane prima del ciclo, il tuo corpo e la tua mente sembrino cambiare? Molte donne vivono un certo disagio fisico e psicologico durante la fase luteale, con sintomi premestruali come tensione al seno, dolori alla schiena, gonfiore e, a volte, un umore altalenante. Questi disturbi, seppur fastidiosi, sono spesso lievi e gestibili. Ma quando diventano intensi e influenzano la vita quotidiana, potrebbe trattarsi di qualcosa di più serio, come il Disturbo Disforico Premestruale (PMDD).
Alcune donne sperimentano la sindrome premestruale, caratterizzata da sintomi che interessano tre aree:
Nella maggior parte dei casi, questi sintomi compaiono in modo ciclico e variano di intensità di mese in mese. Tuttavia, quando i sintomi, specialmente quelli emotivi, diventano debilitanti e interferiscono in maniera marcata con il lavoro, la vita sociale o altre attività quotidiane, potremmo trovarci di fronte al Disturbo Disforico Premestruale (PMDD). Per diagnosticare il PMDD, è necessario che vi siano almeno un sintomo emotivo e un sintomo fisico o comportamentale, che si ripetano con costanza in diversi cicli mestruali.
Non esiste un’unica causa del PMDD, ma diversi fattori possono contribuire alla sua comparsa:
Questi elementi, combinati, possono far sì che alcuni sintomi premestruali assumano una valenza particolarmente intensa, rendendo necessario un intervento specifico.
l Disturbo Disforico Premestruale può essere facilmente confuso con altre condizioni, perché i sintomi possono sovrapporsi a quelli di disturbi come la dismenorrea, la depressione, il disturbo bipolare o i disturbi d’ansia. Inoltre, molte donne con altre problematiche possono notare un peggioramento dei sintomi durante la fase luteale.
Per questo è fondamentale monitorare attentamente il proprio stato: annota i sintomi giorno per giorno per capire se seguono un ritmo ciclico e per identificare eventuali sovrapposizioni con altre condizioni legate ai disturbi del ciclo mestruale.
Se, osservando il tuo quotidiano, noti che i sintomi sono particolarmente intensi e persistenti, causando disagio e interferendo con le tue attività, potrebbe essere il momento di parlarne con uno specialista della salute mentale. Una valutazione accurata può aiutarti a capire se si tratta semplicemente di una variante della sindrome premestruale o se è necessario un intervento mirato per il Disturbo Disforico Premestruale (PMDD).
Conoscere il proprio corpo è il primo passo verso il benessere. Se ti riconosci in questi sintomi, non esitare a cercare supporto: ogni donna merita di sentirsi al meglio, in ogni fase del ciclo mestruale. Continua a informarti, ascolta il tuo corpo e, se necessario, affidati a un professionista per ritrovare l’equilibrio che meriti.
Fonti
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Yonkers, K. A., O'Brien, P. M. S., & Eriksson, E. (2008). Premenstrual syndrome. The Lancet, 371(9619), 1200-1210. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(08)60527-9
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È facile notare come il nostro umore cambi con le stagioni. Le giornate grigie e piovose possono farci sentire avviliti, mentre il sole sembra infondere energia e leggerezza.
Questa sensazione, radicata nella nostra esperienza quotidiana, porta a chiedersi: quanto il tempo atmosferico influisce davvero sul nostro benessere?
Durante l’autunno e l’inverno, alcune persone sperimentano quello che viene chiamato disturbo affettivo stagionale, o depressione stagionale. Si tratta di una forma di depressione che compare soprattutto quando le ore di luce iniziano a diminuire.
I sintomi più tipici includono un aumento considerevole dell’appetito e della necessità di dormire; tuttavia, è importante ricordare che non tutti vivono questi cambiamenti in modo intenso: per molti, si tratta solo di un lieve calo dell’umore.
Due fattori principali sembrano spiegare questo fenomeno:
Inoltre, nei mesi più freddi, le persone tendono a ridurre le attività all’aperto e le occasioni di socializzazione, trascorrendo più tempo in casa. Questo cambiamento nelle abitudini può portare a una diminuzione degli stimoli quotidiani, riducendo le interazioni sociali e le esperienze piacevoli. Di conseguenza, il senso di isolamento e la monotonia possono accentuare sentimenti di tristezza e malinconia.
Nonostante le evidenze di carattere neurobiologico, è importante sottolineare che non siamo destinati ad un tono dell’umore deflesso nei mesi più freddi e bui: sebbene il nostro umore sembri "seguire le stagioni", non tutti reagiscono allo stesso modo.
C'è chi, addirittura, sembra trovare conforto nel rallentare i ritmi. Ma allora perché alcune persone risentono tanto del cambio di stagione mentre altre sembrano relativamente immuni?
Le differenze individuali dipendono da una combinazione di fattori biologici e psicologici. Alcuni studi suggeriscono che chi è più sensibile ai cambiamenti della luce abbia un orologio biologico più suscettibile agli sfasamenti stagionali. Altri, invece, potrebbero avere una predisposizione genetica che rende il loro sistema serotoninergico più vulnerabile alla riduzione della luce solare. Rispetto ai fattori sui quali possiamo intervenire, c'è senz’altro l'abitudine: chi ha costruito una routine che si adatta bene all’inverno, magari con attività stimolanti anche al chiuso, tende a risentire meno del calo di energia tipico dei mesi freddi.
Quindi, se l’inverno pesa sul morale, vale la pena chiedersi: sto semplicemente seguendo un istinto naturale di rallentamento o mi sto chiudendo in una routine che amplifica la tristezza?
Ecco alcuni consigli su come evitare l’effetto “ibernazione depressiva” nei mesi freddi:
Il cambiamento di stagione è un invito a rinnovarsi e a trovare strategie alternative per affrontare i periodi più difficili. Anche se le giornate grigie possono sembrare scoraggianti, è fondamentale riconoscere che possiamo trovare modalità attive per adattarci e mantenere un maggiore equilibrio.
Fonti
Harvard Health. (2024, September 30). Shining a light on winter depression. https://www.health.harvard.edu/newsletter_article/shining-a-light-on-winter-depression
Laiou, P., Kaliukhovich, D. A., Folarin, A. A., Ranjan, Y., Rashid, Z., Conde, P., Stewart, C., Sun, S., Zhang, Y., Matcham, F., Ivan, A., Lavelle, G., Siddi, S., Lamers, F., Penninx, B. W., Haro, J. M., Annas, P., Cummins, N., Vairavan, S., . . . Hotopf, M. (2022). The association between home stay and symptom severity in major depressive Disorder: Preliminary findings from a multicenter observational study using geolocation data from smartphones. JMIR Mhealth and Uhealth, 10(1), e28095. https://doi.org/10.2196/28095
Rosen, L. N., Targum, S. D., Terman, M., Bryant, M. J., Hoffman, H., Kasper, S. F., Hamovit, J. R., Docherty, J. P., Welch, B., & Rosenthal, N. E. (1990). Prevalence of seasonal affective disorder at four latitudes. Psychiatry Research, 31(2), 131–144. https://doi.org/10.1016/0165-1781(90)90116-m
Seasonal affective disorder. (n.d.). National Institute of Mental Health (NIMH). https://www.nimh.nih.gov/health/publications/seasonal-affective-disorder
Gennaio è appena iniziato, e con lui le classiche liste di buoni propositi: iscriversi in palestra, risparmiare di più, migliorare il proprio stile di vita... Ma quante di queste intenzioni resistono più di qualche settimana? Spesso, la rincorsa al miglioramento si trasforma in una corsa a ostacoli contro il tempo, la motivazione e, a volte, anche contro noi stessi.
E se quest’anno provassimo qualcosa di diverso? Invece di focalizzarci solo su ciò che manca, perché non iniziare dando valore a ciò che già abbiamo? La gratitudine, una potente ma spesso sottovalutata emozione, potrebbe essere il segreto per rendere i buoni propositi non solo sostenibili, ma anche più significativi.
L’inizio di un nuovo anno porta con sé l’entusiasmo dei buoni propositi: mantenersi in forma, dedicare più tempo agli studi, risparmiare denaro… In sintesi, migliorarsi. Tuttavia, trasformare queste intenzioni in realtà è spesso più complicato del previsto, e l’entusiasmo iniziale lascia rapidamente spazio a scoraggiamento e frustrazione.
Ecco perché vale la pena considerare un approccio diverso, includendo nei nostri obiettivi un elemento spesso trascurato: la gratitudine.
Quando pensiamo ai propositi per il nuovo anno, tendiamo a concentrarci su ciò che vorremmo cambiare o ottenere. Ma questo approccio, focalizzato sulla mancanza, può farci perdere di vista quanto di positivo già esiste nella nostra vita.
La gratitudine, al contrario, ci invita a soffermarci su ciò che abbiamo, apprezzando le piccole e grandi cose che contribuiscono al nostro benessere. Questo non solo aiuta a migliorare la qualità delle nostre relazioni, ma ci rende anche più resilienti e soddisfatti.
Numerosi studi dimostrano che coltivare la gratitudine ha effetti significativi su diversi aspetti della nostra vita:
Molti abbandonano i propri obiettivi perché sottovalutano quanto siano influenzati da fattori esterni. Ecco alcune strategie per mantenere alta la motivazione:
Oltre a pianificare i nostri obiettivi, possiamo adottare semplici pratiche quotidiane per sviluppare una mentalità più grata:
Coltivare la gratitudine non solo migliora il nostro benessere emotivo, ma ci aiuta a vivere i nostri obiettivi con una prospettiva più positiva e sostenibile. Proviamo a partire da qui: apprezzare il viaggio, non solo la meta.
Bibliografia
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Wood, A. M., Froh, J. J., & Geraghty, A. W. (2010). Gratitude and well-being: a review and theoretical integration. Clinical psychology review, 30(7), 890–905. https://doi.org/10.1016/j.cpr.2010.03.005
Dal 2020 ad oggi, sui profili social di svariati personaggi famosi e/o influencer si è fatto un uso sempre più frequente di alcuni concetti, quali la “manifestazione dei desideri” secondo la “legge dell’attrazione”, entrambi facenti riferimento alla convinzione secondo la quale per essere felici e raggiungere i propri obiettivi sia necessario desiderarli intensamente e vivere come se si fossero già realizzati.
Ma è davvero così? Chi non riesce a perseguire i propri scopi è perché non ci crede abbastanza?
La legge dell’attrazione è una credenza mutuata da alcuni movimenti spirituali statunitensi, secondo cui le esperienze di vita che ci accadono - siano esse positive o negative - dipendono dalla qualità dei pensieri che abitano la nostra mente, nello specifico: chi pensa negativo attrae a sé eventi di vita negativi, e viceversa. Si presuppone, inoltre, che questa legge operi nell’universo attraverso delle “energie” che possiamo attrarre o respingere grazie ai nostri pensieri e alle nostre emozioni.
La conseguenza logica di questa filosofia è che siamo in grado di creare la nostra realtà attraverso il nostro pensiero, modificando il nostro ambiente e la qualità della nostra vita.
Il passaggio successivo è, dunque, quello della manifestazione della propria vita ideale: se sono i nostri pensieri a creare la nostra realtà, dobbiamo allora sostituire vissuti interni relativi all’insoddisfazione e alla mancanza con pensieri di gratitudine e positività, in modo da attirare abbondanza.
Il metodo corretto per manifestare, secondo diversi guru e personaggi famosi, comprende una serie di pratiche, tra le quali:
A onor del vero, alcuni concetti somiglianti a quelli precedentemente citati hanno ottenuto riscontro in psicologia anche a livello empirico, o addirittura sono pilastri fondamentali di teorie e tecniche.
A titolo esemplificativo, le terapie cognitivo-comportamentali partono dall’assunto che un modo eccessivamente rigido di vedere se stessi e la propria vita contribuisca enormemente all’insorgenza e alla strutturazione del malessere psicologico. In questo senso, si può certamente dire che il proprio modo di pensare abbia ricadute a cascata sul benessere soggettivo.
Anche nella psicologia sociale si riscontrano teorie analoghe, come la “profezia che si autoavvera”, secondo cui le aspettative di una persona o di un gruppo verso altri possono inavvertitamente contribuire al manifestarsi di quella stessa aspettativa.
In linea di massima, si può concludere che i suggerimenti generali di questi concetti pop contengano un certo fondamento di verità, ma necessitano di alcuni fondamentali chiarimenti.
Anzitutto, è importante ricordare che le affermazioni di influencer e persone famose, sebbene possano risultare affascinanti, potrebbero non essere del tutto affidabili, considerando che spesso provengono da persone con esperienze di vita particolari e talvolta prive di una conoscenza approfondita in determinati ambiti. Inoltre, c'è una sostanziale differenza tra affermare che sia utile mantenere un atteggiamento positivo e sostenere che la mancanza di ricchezza o felicità dipenda esclusivamente dalla carenza di fiducia. Quest'ultima prospettiva ignora le condizioni socio-economiche di partenza e, ancor più problematicamente, suggerisce il pericoloso concetto che chi vive una situazione di insoddisfazione debba essere considerato l’esclusivo responsabile della propria condizione.
Molte persone che intraprendono un percorso di crescita personale, come la psicoterapia, sono consapevoli di quanto cambiare sia faticoso e richieda uno sforzo intimo non riducibile al solo pensiero positivo.
Può essere ammirevole accogliere le suggestioni sul pensiero positivo e riconoscere che l'ottimismo possa oggettivamente favorire il benessere, ma è importante:
Fonti:
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Cuddy, A. (n.d.). Your body language may shape who you are [Video]. TED Talks. https://www.ted.com/talks/amy_cuddy_your_body_language_may_shape_who_you_are?subtitle=en
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Quello delle festività natalizie è un periodo che, solitamente, attendiamo con trepidazione, come una piccola parentesi positiva nei bui mesi invernali. Certo, non per tutti i ritrovi familiari natalizi sono esclusivamente fonte di gioia. A volte, i legami di sangue possono essere un preludio a domande inappropriate, inquisizioni fastidiose, discussioni vivaci o persino rapporti disfunzionali, che finiscono per provocare molto disagio.
Di seguito, una piccola guida per uscirne (quasi del tutto) illesi.
Perché certe domande pesano così tanto?
Il Natale, con i suoi pranzi interminabili e le tavole cariche di parenti, sembra l’occasione ideale per domande che vanno a toccare nervi scoperti. Spesso, questo accade anche comprensibilmente, quando ci si rivede dopo molto tempo.
“E il fidanzato/fidanzata ce l’hai ancora?”, “Voi quando li fate i figli?”, “Quando ti decidi a trovare un lavoro serio?”. E ancora, “Hai preso qualche chilo ultimamente, sbaglio?” o “Perché non ti vedi mai con tuo fratello?”...
Sono domande che, nonostante possano dipendere anche da curiosità o buone intenzioni, possono toccare la sfera personale, generando fastidio o vergogna.
Spesso scaturiscono da una combinazione di tradizioni familiari, dinamiche di potere tra i vari membri e una certa dose di disattenzione verso l'altro. Chi le pone potrebbe non rendersi conto dell'impatto che hanno, mentre chi le riceve si ritrova a gestire una valanga di emozioni, senza volerle però esternare in un’occasione di festa.
Dall’imbarazzo alla rabbia, passando per la sensazione di dover giustificare la propria vita…
Come attrezzarsi per i ritrovi natalizi
Prima:
Durante:
Dopo:
E soprattutto, fai un sospiro di sollievo: prima del prossimo, manca ancora un anno.
Le festività natalizie, pur essendo un periodo di gioia e condivisione per molti, possono anche essere fonte di vissuti negativi per altri. Il cosiddetto "Christmas blues" o "malinconia natalizia" non è una diagnosi clinica specifica, ma descrive un insieme di sentimenti che possono insorgere durante le festività: si tratta di sensazioni temporanee di ansia o tristezza, spesso associate a fattori legati a questo periodo dell'anno.
La malinconia natalizia può manifestarsi in diversi modi, come senso di solitudine, tristezza, stanchezza, tensione, senso di perdita, irritabilità. È importante sottolineare che, sebbene il periodo natalizio sia spesso associato a un aumento di sentimenti negativi, non esiste un aumento drastico dei suicidi durante le festività, contrariamente a una credenza popolare.
Perché accade?
Diversi fattori possono contribuire all'insorgere del Christmas blues:
Cosa fare per sentirsi meglio?
Se stai vivendo sentimenti di ansia o depressione durante le festività, è importante chiedere aiuto. Parla con amici, familiari o un professionista della salute mentale. Il Christmas blues è una condizione temporanea, e con il giusto supporto è possibile superare questo periodo difficile. Prenditi cura di te stesso, concediti momenti di relax e cerca di concentrarti su ciò che ti rende felice, ricordandoti che chiedere aiuto è un segno di forza e che moltissime persone, contrariamente a quanto sembri, vivono il periodo natalizio con estrema fatica.
Ecco alcuni piccoli consigli che possono aiutarti a superare questo periodo:
Bibliografia
Greenstein L. (2015) Tips for Managing the Holiday Blues. National Alliance on Mental Illness, from: https://www.nami.org/
R Adams Cowley Shock Trauma Center, University of Marylan (n.d). Holiday Blues, from: https://www.umms.org/
Sansone, R. A., & Sansone, L. A. (2011). The Christmas effect on psychopathology. Innovations in clinical neuroscience, 8(12), 10–13.