"Mi spiace per la discussione, sarà il caldo che mi fa impazzire".
È uno stereotipo noto quello secondo cui le persone, con l’arrivo del caldo intenso, tendano a essere più irritabili. Molti di noi si sentono nervosi e più inclini a discussioni anche per questioni di poco conto. Non è solo una sensazione soggettiva: il caldo può davvero influenzare il nostro equilibrio psicologico e aumentare i livelli di stress e ansia.
Quando la temperatura esterna è molto alta, il nostro corpo deve attivare una serie di meccanismi per mantenere stabile la temperatura interna.
Questo processo, ovvero la termoregolazione, richiede uno sforzo fisiologico importante. La fatica che fa il nostro organismo ha un impatto anche sul cervello, che riceve segnali di “allerta” legati al pericolo di surriscaldamento.
Il risultato è un’attivazione più frequente del sistema nervoso simpatico, responsabile delle risposte di emergenza (attacco, fuga, o congelamento). È lo stesso sistema che entra in azione quando siamo in ansia o sotto stress. Questo stato di allerta costante riduce la nostra capacità di mantenere la calma e gestire con lucidità situazioni anche banali.
Studi neuroscientifici mostrano che l’eccesso di calore può influenzare diverse funzioni cognitive ed emotive:
In questo stato alterato, siamo più portati a reagire d’istinto piuttosto che con razionalità. È più difficile “contare fino a dieci”, perché le risorse cognitive sono impegnate nella gestione dello stress fisico. Discussioni su questioni semplici - cosa mangiare, dove andare, come organizzare la giornata - diventano rapidamente conflitti accesi. Anche in vacanza.
Inoltre, il caldo può aumentare i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, e interferire con la produzione di serotonina, che contribuisce alla regolazione dell’umore. Questo crea un terreno favorevole a nervosismo, inquietudine, irritabilità, ma anche ansia e malinconia.
Se senti sopraffazione e ansia nelle giornate torride, potresti adottare questi accorgimenti:
Quando senti il cuore accelerare, cerca un posto tranquillo e prova a fare qualche respiro profondo e lento, inspirando dal naso per 4 secondi, trattenendo l’aria per 4, e poi espirando lentamente dalla bocca per 6 secondi. Questa tecnica aiuta a calmare il sistema nervoso.
Evita sbalzi di temperatura troppo bruschi, come entrare e uscire continuamente da ambienti molto condizionati. Prova piuttosto docce tiepide o bagni ai polsi e al collo, dove passano le arterie principali.
Forse è scontato, ma ricordati di bere acqua anche se non hai sete, perché la disidratazione peggiora la sensazione di stanchezza e irritabilità.
Se ti è possibile, cerca di rimandare attività impegnative alle ore meno calde, o alterna momenti di movimento a pause all’ombra.
Se hai già una tendenza all’ansia, il caldo torrido può scatenare veri e propri attacchi di panico, soprattutto quando sei fuori casa e ti senti vulnerabile.
Preparare sempre con te acqua fresca e qualche bustina di zucchero può aiutare a gestire i sintomi fisici (come il senso di svenimento o il tremore), ma è importante ricordare che il caldo non è l'unica fonte di malessere: l’ansia amplifica le sensazioni fisiche e può farti interpretare normali segnali corporei come segnali di pericolo imminente.
Il pensiero catastrofico (cioè l’idea che “sta succedendo qualcosa di gravissimo”) è una trappola mentale molto comune negli attacchi di panico. Sapere che questi pensieri sono frutto di un’allerta eccessiva del cervello, non di una reale minaccia, può aiutarti a prenderli con più distacco.
Fonti
Baecker, L., Iyengar, U., Del Piccolo, M. C., & Mechelli, A. (2025). “Impacts of extreme heat on mental health: Systematic review and qualitative investigation of the underpinning mechanisms.” The Journal of Climate Change and Health, 22, 100446. https://doi.org/10.1016/j.joclim.2025.100446
Pappas, S. (2024, June 1). How heat affects the mind. Monitor on Psychology, 55(4). https://www.apa.org/monitor/2024/06/heat-affects-mental-health
Il nostro modo di godere della vita è radicalmente cambiato negli ultimi decenni.
Fino a poco tempo fa viaggiare significava perdersi nel qui ed ora, e una cena con gli amici era un’occasione intima di serenità, da custodire quasi segretamente.
Oggi qualcosa si è rotto, e lo sappiamo.
Non tanto perché abbiamo smesso di viaggiare o di stare insieme, ma perché spesso non siamo più davvero lì quando ciò avviene. L’esperienza non è più fine a se stessa, ma un mezzo: per mostrarla, raccontarla e mettere una spunta nelle esperienze piacevoli da aver vissuto almeno una volta.
Abbiamo trasformato il piacere in prestazione: il viaggio deve essere unico, instagrammabile, meglio se mai visto.
Un’esperienza consueta non basta più. Anche il tempo libero diventa competitivo, oggetto di valutazione. La compagnia degli amici si riduce a una foto, una cena è un’occasione per far vedere cosa mangiamo, dove siamo, con chi.
Perciò, viviamo tutto come se ci fosse un pubblico invisibile da stupire.
Ma chi è davvero quel pubblico? Gli altri? O noi stessi, in una versione idealizzata che vogliamo costruire, convincendoci che stiamo vivendo “bene”?
Il risultato è che fatichiamo a stare nel momento. Durante un’esperienza bella, anziché lasciarci attraversare, già pensiamo alla prossima. Alla foto da scattare, a come raccontarla. La testa corre avanti, e noi smettiamo di esserci.
Secondo la stessa logica, anche il piacere del viaggio si è trasformato in un’esibizione e in un’ansia continue. Si viaggia come forsennati, stipati nei fine settimana, incastrando ore e minuti come pezzi di un puzzle che deve combaciare alla perfezione.
Ogni dettaglio deve essere ottimizzato, ogni momento pieno, ogni tappa documentata.
Non appena abbiamo “divorato” una meta famosa, pensiamo già alla prossima avventura di cui ingozzarci. Anzi, spesso la stiamo cercando con la bocca ancora piena, incapaci di digerire ciò che abbiamo appena vissuto.
Il viaggio, da nutrimento dell’anima, è diventato un buffet da cui usciamo strapieni, ma non nutriti.
Il consumismo esperienziale nasce dalla stessa logica che alimenta quello materiale: accumulare per sentirsi di più. Solo che invece degli oggetti, collezioniamo momenti, viaggi, emozioni, da consumare in fretta e mostrare agli altri.
In un mondo dove l’identità si costruisce anche online, vivere esperienze straordinarie diventa una forma di status. Ma questa ricerca costante di “più bello”, “più nuovo”, “più intenso” crea assuefazione: ci abituiamo rapidamente al piacere e ne vogliamo subito un altro. L’esperienza perde la sua ricchezza e diventa una prestazione. Non c’è più spazio per la noia, per la semplicità, per l’imperfezione.
Così, invece di arricchirci, ci svuota.
Le esperienze non si accumulano: si attraversano.
E quelle che lasci entrare davvero, restano.
Fonti
Pine, B. J., & Gilmore, J. H. (2011). The experience economy: Updated edition. Harvard Business Review Press.
Tanhan, F., Özok, H. I., & Tayiz, V. (2022). Fear of missing out (FoMO): A current review. Psikiyatride Güncel Yaklaşımlar / Current Approaches in Psychiatry, 14(1), 20–34. Retrieved from https://www.cappsy.org
Van Boven, L., & Gilovich, T. (2003). To do or to have? That is the question. Journal of Personality and Social Psychology, 85(6), 1193–1202. https://doi.org/10.1037/0022-3514.85.6.1193
Così viene comunemente chiamata da studiosi e non: un contesto in cui il valore della persona sembra dipendere, sempre più spesso, da ciò che riesce a fare, dimostrare, produrre. In questo scenario dominato dalla pressione sociale alla produttività, l’agire diventa più importante dell’essere, e il successo — in qualunque ambito — diventa quasi un imperativo, alimentando forme diffuse di ansia da prestazione.
Il filosofo coreano Byung-Chul Han, nel suo libro “La società della stanchezza”, descrive con lucidità questa tendenza: oggi non siamo più governati da un sistema repressivo, ma da una pressione interna a essere sempre produttivi, efficienti, prestazionali.
Non serve più un capo che impone: ci auto-sorvegliamo, ci spingiamo oltre i limiti, nel tentativo di corrispondere a un ideale di efficienza continua.
Da un certo punto di vista, è molto più efficace creare un contesto sociale in cui il “dittatore” è interiorizzato: obbediamo di buon grado ai nostri stessi ordini, spesso senza renderci conto delle conseguenze sul nostro benessere psicologico.
Questa mentalità non riguarda solo chi lavora in contesti iper-competitivi come la finanza, la tecnologia o le grandi aziende, ma si infiltra silenziosamente anche nella vita quotidiana, nelle università, negli uffici, nelle famiglie.
Essere performanti e perfetti è diventato un modello invisibile, ma potentissimo. Eppure pochi ne parlano apertamente.
Lo si può osservare spesso nel lavoro clinico: studenti con ansia da prestazione che non riescono a lasciare da parte i manuali se non li conoscono a memoria, giovani professionisti che si sentono costantemente inadeguati anche di fronte a piccoli errori, o ancora genitori perfezionisti che si colpevolizzano per ogni sbaglio commesso con i propri figli.
Questa ricerca esasperata di controllo e perfezione non è solo una questione di ambizione; spesso è il segnale di qualcosa di più profondo: la paura di non essere riconosciuti, il timore di essere meritevoli di affetto e felicità solo se si è impeccabili, smussati in ciascun difetto.
E così, anche se all’esterno possiamo apparire “brillanti”, dentro ci si può sentire sempre in affanno. Come se ogni cosa che facciamo o diciamo dovesse continuamente dimostrare il nostro valore personale.
Forse i nostri limiti e le nostre imperfezioni avrebbero bisogno di essere guardati con più gentilezza e attenzione, perché sono proprio loro a custodire la nostra autenticità e il nostro valore individuale.
Dal punto di vista psicologico, accettare i propri limiti non deve significare rassegnarsi, ma riconoscere che il valore personale non dipende dalla misurabilità di una nostra prestazione.
Spesso è il pensiero rigido — “se non sono impeccabile, non valgo” — a generare sofferenza più del limite stesso.
In altre parole, non è l’insuccesso a farci soffrire, ma il significato che gli attribuiamo.
Un significato spesso appreso in contesti che premiano la produttività a ogni costo, e che ignorano la complessità della salute mentale.
Han, B. (2020). La società della stanchezza.
Nella società contemporanea, sempre più orientata alla performance e al controllo, non è raro imbattersi in pazienti che sviluppano un meccanismo di difesa particolarmente insidioso: l’intellettualizzazione. Si tratta di un processo inconscio che porta a costruire teorie sulle proprie emozioni, impedendo sostanzialmente di viverle. La sofferenza viene trasformata in un problema da analizzare, piuttosto che in un’esperienza da attraversare. Ma cosa significa realmente? E quali sono le conseguenze per il nostro benessere psicologico?
L’intellettualizzazione è un meccanismo di difesa psicologico attraverso il quale le emozioni vengono gestite esclusivamente sul piano cognitivo, evitando di sperimentarle nella loro pienezza. Chi utilizza questo schema tende a spiegare razionalmente i propri stati d’animo senza entrarci davvero in contatto. Frasi come “So che quello che mi è successo è stato traumatico, ma ormai è passato” o “Capisco che dovrei essere arrabbiato, ma non ha senso sprecare energie” sono tipiche di chi intellettualizza le proprie emozioni.
L’intellettualizzazione delle emozioni può nascere come risposta a un contesto familiare in cui i vissuti emotivi non erano accolti o venivano visti come segni di debolezza. Se da bambini ci è stato insegnato a “non fare drammi”, a “pensare con la testa e non con il cuore”, o se le nostre emozioni sono state minimizzate o ignorate, è possibile che da adulti abbiamo imparato a distaccarci emotivamente, trasformando le sensazioni in concetti astratti.
Inoltre, il contesto sociale sempre più orientato al controllo e alla dimensione prestazionale può sfavorire l’accettazione emotiva. Questo meccanismo si attiva soprattutto di fronte a situazioni di stress o dolore psichico. Pensare le emozioni, invece di sentirle, dà un senso di controllo: una protezione illusoria contro la sofferenza. Tuttavia, questa distanza emotiva può impedire la reale elaborazione emotiva, mantenendo il disagio sullo sfondo.
Evitare di sentire le emozioni non significa eliminarle. Al contrario, le emozioni represse trovano spesso altre vie per esprimersi: ansia, somatizzazioni, senso di vuoto, difficoltà nelle relazioni affettive. Si rischia di perdere il contatto con se stessi, vivendo in un costante stato di analisi senza mai permettersi di essere.
Chi ricorre all’intellettualizzazione in modo eccessivo spesso fatica a riconoscere i propri bisogni emotivi e può avere difficoltà a costruire relazioni autentiche, poiché queste richiedono vulnerabilità e apertura emotiva. Inoltre, quando certi meccanismi di difesa si radicano, possono compromettere anche la capacità di provare emozioni piacevoli, non solo quelle dolorose.
• Riconoscere il problema: il primo passo è accorgersi di questo schema. Ti capita di ragionare sulle tue emozioni più e più volte, senza venirne a capo?
• Dare spazio alle emozioni: provare a sentire, senza giudizio, ciò che emerge dentro di noi. A volte basta fermarsi, respirare e chiedersi: cosa sto provando in questo momento?
• Esprimere senza giustificare: le emozioni non devono sempre avere una spiegazione logica. Possiamo essere tristi, arrabbiati o delusi senza doverlo legittimare con una teoria.
• Coltivare la connessione corporea: attività come la meditazione, lo yoga o il movimento consapevole possono aiutare a rientrare in contatto con il proprio mondo emotivo.
• Chiedere aiuto professionale: se l’intellettualizzazione diventa un ostacolo alla salute mentale, un percorso terapeutico può aiutare a riconnettersi con il proprio sentire in modo più autentico.
Sentire le emozioni può essere spaventoso, ma è anche l’unico modo per elaborarle davvero. Pensarle soltanto non basta: il dolore non si dissolve con un ragionamento logico, ma con l’esperienza autentica dell’emozione. Solo quando ci permettiamo di sentire possiamo trasformare ciò che proviamo e liberarci da schemi difensivi che ci tengono bloccati.
Fonti:
Lingiardi, V., & Madeddu, F. (2023). I meccanismi di difesa. Teoria, valutazione, clinica.
González, Á. (2018). Non sono io: Imparando a comprenderci.
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È facile notare come il nostro umore cambi con le stagioni. Le giornate grigie e piovose possono farci sentire avviliti, mentre il sole sembra infondere energia e leggerezza.
Questa sensazione, radicata nella nostra esperienza quotidiana, porta a chiedersi: quanto il tempo atmosferico influisce davvero sul nostro benessere?
Durante l’autunno e l’inverno, alcune persone sperimentano quello che viene chiamato disturbo affettivo stagionale, o depressione stagionale. Si tratta di una forma di depressione che compare soprattutto quando le ore di luce iniziano a diminuire.
I sintomi più tipici includono un aumento considerevole dell’appetito e della necessità di dormire; tuttavia, è importante ricordare che non tutti vivono questi cambiamenti in modo intenso: per molti, si tratta solo di un lieve calo dell’umore.
Due fattori principali sembrano spiegare questo fenomeno:
Inoltre, nei mesi più freddi, le persone tendono a ridurre le attività all’aperto e le occasioni di socializzazione, trascorrendo più tempo in casa. Questo cambiamento nelle abitudini può portare a una diminuzione degli stimoli quotidiani, riducendo le interazioni sociali e le esperienze piacevoli. Di conseguenza, il senso di isolamento e la monotonia possono accentuare sentimenti di tristezza e malinconia.
Nonostante le evidenze di carattere neurobiologico, è importante sottolineare che non siamo destinati ad un tono dell’umore deflesso nei mesi più freddi e bui: sebbene il nostro umore sembri "seguire le stagioni", non tutti reagiscono allo stesso modo.
C'è chi, addirittura, sembra trovare conforto nel rallentare i ritmi. Ma allora perché alcune persone risentono tanto del cambio di stagione mentre altre sembrano relativamente immuni?
Le differenze individuali dipendono da una combinazione di fattori biologici e psicologici. Alcuni studi suggeriscono che chi è più sensibile ai cambiamenti della luce abbia un orologio biologico più suscettibile agli sfasamenti stagionali. Altri, invece, potrebbero avere una predisposizione genetica che rende il loro sistema serotoninergico più vulnerabile alla riduzione della luce solare. Rispetto ai fattori sui quali possiamo intervenire, c'è senz’altro l'abitudine: chi ha costruito una routine che si adatta bene all’inverno, magari con attività stimolanti anche al chiuso, tende a risentire meno del calo di energia tipico dei mesi freddi.
Quindi, se l’inverno pesa sul morale, vale la pena chiedersi: sto semplicemente seguendo un istinto naturale di rallentamento o mi sto chiudendo in una routine che amplifica la tristezza?
Ecco alcuni consigli su come evitare l’effetto “ibernazione depressiva” nei mesi freddi:
Il cambiamento di stagione è un invito a rinnovarsi e a trovare strategie alternative per affrontare i periodi più difficili. Anche se le giornate grigie possono sembrare scoraggianti, è fondamentale riconoscere che possiamo trovare modalità attive per adattarci e mantenere un maggiore equilibrio.
Fonti
Harvard Health. (2024, September 30). Shining a light on winter depression. https://www.health.harvard.edu/newsletter_article/shining-a-light-on-winter-depression
Laiou, P., Kaliukhovich, D. A., Folarin, A. A., Ranjan, Y., Rashid, Z., Conde, P., Stewart, C., Sun, S., Zhang, Y., Matcham, F., Ivan, A., Lavelle, G., Siddi, S., Lamers, F., Penninx, B. W., Haro, J. M., Annas, P., Cummins, N., Vairavan, S., . . . Hotopf, M. (2022). The association between home stay and symptom severity in major depressive Disorder: Preliminary findings from a multicenter observational study using geolocation data from smartphones. JMIR Mhealth and Uhealth, 10(1), e28095. https://doi.org/10.2196/28095
Rosen, L. N., Targum, S. D., Terman, M., Bryant, M. J., Hoffman, H., Kasper, S. F., Hamovit, J. R., Docherty, J. P., Welch, B., & Rosenthal, N. E. (1990). Prevalence of seasonal affective disorder at four latitudes. Psychiatry Research, 31(2), 131–144. https://doi.org/10.1016/0165-1781(90)90116-m
Seasonal affective disorder. (n.d.). National Institute of Mental Health (NIMH). https://www.nimh.nih.gov/health/publications/seasonal-affective-disorder
Dal 2020 ad oggi, sui profili social di svariati personaggi famosi e/o influencer si è fatto un uso sempre più frequente di alcuni concetti, quali la “manifestazione dei desideri” secondo la “legge dell’attrazione”, entrambi facenti riferimento alla convinzione secondo la quale per essere felici e raggiungere i propri obiettivi sia necessario desiderarli intensamente e vivere come se si fossero già realizzati.
Ma è davvero così? Chi non riesce a perseguire i propri scopi è perché non ci crede abbastanza?
La legge dell’attrazione è una credenza mutuata da alcuni movimenti spirituali statunitensi, secondo cui le esperienze di vita che ci accadono - siano esse positive o negative - dipendono dalla qualità dei pensieri che abitano la nostra mente, nello specifico: chi pensa negativo attrae a sé eventi di vita negativi, e viceversa. Si presuppone, inoltre, che questa legge operi nell’universo attraverso delle “energie” che possiamo attrarre o respingere grazie ai nostri pensieri e alle nostre emozioni.
La conseguenza logica di questa filosofia è che siamo in grado di creare la nostra realtà attraverso il nostro pensiero, modificando il nostro ambiente e la qualità della nostra vita.
Il passaggio successivo è, dunque, quello della manifestazione della propria vita ideale: se sono i nostri pensieri a creare la nostra realtà, dobbiamo allora sostituire vissuti interni relativi all’insoddisfazione e alla mancanza con pensieri di gratitudine e positività, in modo da attirare abbondanza.
Il metodo corretto per manifestare, secondo diversi guru e personaggi famosi, comprende una serie di pratiche, tra le quali:
A onor del vero, alcuni concetti somiglianti a quelli precedentemente citati hanno ottenuto riscontro in psicologia anche a livello empirico, o addirittura sono pilastri fondamentali di teorie e tecniche.
A titolo esemplificativo, le terapie cognitivo-comportamentali partono dall’assunto che un modo eccessivamente rigido di vedere se stessi e la propria vita contribuisca enormemente all’insorgenza e alla strutturazione del malessere psicologico. In questo senso, si può certamente dire che il proprio modo di pensare abbia ricadute a cascata sul benessere soggettivo.
Anche nella psicologia sociale si riscontrano teorie analoghe, come la “profezia che si autoavvera”, secondo cui le aspettative di una persona o di un gruppo verso altri possono inavvertitamente contribuire al manifestarsi di quella stessa aspettativa.
In linea di massima, si può concludere che i suggerimenti generali di questi concetti pop contengano un certo fondamento di verità, ma necessitano di alcuni fondamentali chiarimenti.
Anzitutto, è importante ricordare che le affermazioni di influencer e persone famose, sebbene possano risultare affascinanti, potrebbero non essere del tutto affidabili, considerando che spesso provengono da persone con esperienze di vita particolari e talvolta prive di una conoscenza approfondita in determinati ambiti. Inoltre, c'è una sostanziale differenza tra affermare che sia utile mantenere un atteggiamento positivo e sostenere che la mancanza di ricchezza o felicità dipenda esclusivamente dalla carenza di fiducia. Quest'ultima prospettiva ignora le condizioni socio-economiche di partenza e, ancor più problematicamente, suggerisce il pericoloso concetto che chi vive una situazione di insoddisfazione debba essere considerato l’esclusivo responsabile della propria condizione.
Molte persone che intraprendono un percorso di crescita personale, come la psicoterapia, sono consapevoli di quanto cambiare sia faticoso e richieda uno sforzo intimo non riducibile al solo pensiero positivo.
Può essere ammirevole accogliere le suggestioni sul pensiero positivo e riconoscere che l'ottimismo possa oggettivamente favorire il benessere, ma è importante:
Fonti:
Albina, A. (2018). The Law of Attraction: Positive Thinking and Level of Gratitude towards Happiness. Central Mindanao University Journal of Science, 22(1). https://doi.org/10.52751/bjyr8516
Chand, S. P., Kuckel, D. P., & Huecker, M. R. (2023, May 23). Cognitive Behavior Therapy. StatPearls - NCBI Bookshelf. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK470241/
Cuddy, A. (n.d.). Your body language may shape who you are [Video]. TED Talks. https://www.ted.com/talks/amy_cuddy_your_body_language_may_shape_who_you_are?subtitle=en
Google Trends. (n.d.). Manifesting. Retrieved January 14, 2025, from https://trends.google.it/trends/explore?date=all&q=manifesting&hl=it
Rosenthal, R. (2012). Self-Fulfilling prophecy. In Elsevier eBooks (pp. 328–335). https://doi.org/10.1016/b978-0-12-375000-6.00314-1
Quello delle festività natalizie è un periodo che, solitamente, attendiamo con trepidazione, come una piccola parentesi positiva nei bui mesi invernali. Certo, non per tutti i ritrovi familiari natalizi sono esclusivamente fonte di gioia. A volte, i legami di sangue possono essere un preludio a domande inappropriate, inquisizioni fastidiose, discussioni vivaci o persino rapporti disfunzionali, che finiscono per provocare molto disagio.
Di seguito, una piccola guida per uscirne (quasi del tutto) illesi.
Perché certe domande pesano così tanto?
Il Natale, con i suoi pranzi interminabili e le tavole cariche di parenti, sembra l’occasione ideale per domande che vanno a toccare nervi scoperti. Spesso, questo accade anche comprensibilmente, quando ci si rivede dopo molto tempo.
“E il fidanzato/fidanzata ce l’hai ancora?”, “Voi quando li fate i figli?”, “Quando ti decidi a trovare un lavoro serio?”. E ancora, “Hai preso qualche chilo ultimamente, sbaglio?” o “Perché non ti vedi mai con tuo fratello?”...
Sono domande che, nonostante possano dipendere anche da curiosità o buone intenzioni, possono toccare la sfera personale, generando fastidio o vergogna.
Spesso scaturiscono da una combinazione di tradizioni familiari, dinamiche di potere tra i vari membri e una certa dose di disattenzione verso l'altro. Chi le pone potrebbe non rendersi conto dell'impatto che hanno, mentre chi le riceve si ritrova a gestire una valanga di emozioni, senza volerle però esternare in un’occasione di festa.
Dall’imbarazzo alla rabbia, passando per la sensazione di dover giustificare la propria vita…
Come attrezzarsi per i ritrovi natalizi
Prima:
Durante:
Dopo:
E soprattutto, fai un sospiro di sollievo: prima del prossimo, manca ancora un anno.
Per la giornata mondiale dell’eliminazione della violenza contro le donne, vogliamo provare a spiegare le motivazioni psicologiche sottostanti il mantenimento delle relazioni di abuso, in altre parole, contestualizzare la ragione che porta molte donne a rimanere in rapporti in cui subiscono violenza. E no, il motivo non è riconducibile alla loro debolezza.
La violenza domestica è un insieme di comportamenti abusivi in una relazione che viene adoperato da un partner per ottenere o mantenere il potere e il controllo sull’altro.
La violenza domestica è, però, un fenomeno di genere, in quanto nella maggioranza dei casi descrive uomini che agiscono violenza su donne.
Essa può consistere in azioni o minacce di azioni fisiche, sessuali, emotive, economiche, psicologiche o in altri modelli di comportamento coercitivo. Sono compresi tutti i comportamenti che intimidiscono, manipolano, umiliano, isolano, spaventano, costringono, minacciano o feriscono la vittima. Infatti, non si limita all’uso di violenza fisica, ma il suo mantenimento comprende varie forme di abuso emotivo, quali l'intimidazione o le azioni di controllo, con l'obiettivo di isolare la persona dalla famiglia e dagli amici.
Questo insieme di meccanismi rende la persona vittima di violenza scoraggiata ad allontanarsi per vari motivi, tra cui la paura che le minacce di morte del partner abusante possano effettivamente verificarsi. Inoltre, le persone che subiscono abusi spesso tendono a vergognarsene e a colpevolizzarsi dell’accaduto, contribuendo al loro isolamento.
Nel 2023 le richieste di assistenza per casi di violenza domestica sono state circa 14.000, dato che rappresenta probabilmente una sottostima, considerata la ritrosia a denunciare.
In più del 60% dei casi, l’autore era una persona vicina alla vittima, in particolare ex marito/partner.
In 2 casi su 5 risultavano minori coabitanti, configurando uno scenario aggiuntivo di maltrattamento infantile.
La violenza domestica non è un problema di ciascuna singola donna, ma un tema collettivo che parla della società, nella sua interezza. Ognuno di noi, con ascolto e presenza, può essere parte del cambiamento, contribuendo a far sentire le donne meno sole e giudicate. Imparare a conoscere i meccanismi della violenza è il primo modo per aiutarle davvero, e cercare di cambiare noi stessi, insieme al mondo che abitiamo.
Bibliografia
1. Clinic, C. (2024, October 11). The Power and control Wheel: a domestic violence model. Cleveland Clinic. https://health.clevelandclinic.org/power-and-control-wheel](https://health.clevelandclinic.org/power-and-control-wheel)
2. Convenzione di Istanbul (2011).
3. Corn, E., Malgesini, L., & Pezzotta, I. (2024). Era una brava persona. Sguardi sulla violenza maschile contro le donne.
4. Omicidi volontari e violenza di genere. (n.d.). *Ministero Dell‘Interno. https://www.interno.gov.it/it/stampa-e-comunicazione/dati-e-statistiche/omicidi-volontari-e-violenza-genere](https://www.interno.gov.it/it/stampa-e-comunicazione/dati-e-statistiche/omicidi-volontari-e-violenza-genere)
5. Violenza domestica e violenza assistita: nuovi dati. (2024, September 27). Save the Children Italia. https://www.savethechildren.it/blog-notizie/violenza-domestica-e-violenza-assistita-nuovi-dati](https://www.savethechildren.it/blog-notizie/violenza-domestica-e-violenza-assistita-nuovi-dati)
6. Walker-Descartes, I., Mineo, M., Condado, L. V., & Agrawal, N. (2021). Domestic violence and its effects on women, children, and families. Pediatric Clinics of North America, 68(2), 455–464. https://doi.org/10.1016/j.pcl.2020.12.011](https://doi.org/10.1016/j.pcl.2020.12.011)
7. Why people stay in an abusive relationship | The Hotline. (2023, December 15). The Hotline. https://www.thehotline.org/support-others/why-people-stay-in-an-abusive-relationship/](https://www.thehotline.org/support-others/why-people-stay-in-an-abusive-relationship/)