Così viene comunemente chiamata da studiosi e non: un contesto in cui il valore della persona sembra dipendere, sempre più spesso, da ciò che riesce a fare, dimostrare, produrre. In questo scenario dominato dalla pressione sociale alla produttività, l’agire diventa più importante dell’essere, e il successo — in qualunque ambito — diventa quasi un imperativo, alimentando forme diffuse di ansia da prestazione.
Il filosofo coreano Byung-Chul Han, nel suo libro “La società della stanchezza”, descrive con lucidità questa tendenza: oggi non siamo più governati da un sistema repressivo, ma da una pressione interna a essere sempre produttivi, efficienti, prestazionali.
Non serve più un capo che impone: ci auto-sorvegliamo, ci spingiamo oltre i limiti, nel tentativo di corrispondere a un ideale di efficienza continua.
Da un certo punto di vista, è molto più efficace creare un contesto sociale in cui il “dittatore” è interiorizzato: obbediamo di buon grado ai nostri stessi ordini, spesso senza renderci conto delle conseguenze sul nostro benessere psicologico.
Questa mentalità non riguarda solo chi lavora in contesti iper-competitivi come la finanza, la tecnologia o le grandi aziende, ma si infiltra silenziosamente anche nella vita quotidiana, nelle università, negli uffici, nelle famiglie.
Essere performanti e perfetti è diventato un modello invisibile, ma potentissimo. Eppure pochi ne parlano apertamente.
Lo si può osservare spesso nel lavoro clinico: studenti con ansia da prestazione che non riescono a lasciare da parte i manuali se non li conoscono a memoria, giovani professionisti che si sentono costantemente inadeguati anche di fronte a piccoli errori, o ancora genitori perfezionisti che si colpevolizzano per ogni sbaglio commesso con i propri figli.
Questa ricerca esasperata di controllo e perfezione non è solo una questione di ambizione; spesso è il segnale di qualcosa di più profondo: la paura di non essere riconosciuti, il timore di essere meritevoli di affetto e felicità solo se si è impeccabili, smussati in ciascun difetto.
E così, anche se all’esterno possiamo apparire “brillanti”, dentro ci si può sentire sempre in affanno. Come se ogni cosa che facciamo o diciamo dovesse continuamente dimostrare il nostro valore personale.
Forse i nostri limiti e le nostre imperfezioni avrebbero bisogno di essere guardati con più gentilezza e attenzione, perché sono proprio loro a custodire la nostra autenticità e il nostro valore individuale.
Dal punto di vista psicologico, accettare i propri limiti non deve significare rassegnarsi, ma riconoscere che il valore personale non dipende dalla misurabilità di una nostra prestazione.
Spesso è il pensiero rigido — “se non sono impeccabile, non valgo” — a generare sofferenza più del limite stesso.
In altre parole, non è l’insuccesso a farci soffrire, ma il significato che gli attribuiamo.
Un significato spesso appreso in contesti che premiano la produttività a ogni costo, e che ignorano la complessità della salute mentale.
Han, B. (2020). La società della stanchezza.